Pornografia del dolore

A cura della dottoressa Silvia Senestro

L’espressione “Pornografia del dolore”, normalmente utilizzata in riferimento al mondo giornalistico e dei social media, indica l’esposizione morbosa di dettagli macabri e violenti che sembrano attrarre così tanto il pubblico, ipnotizzandolo.
Qualche giorno fa, invece, una mia paziente ha portato la mia attenzione su un’accezione diversa di questa espressione, più intima, che nulla ha a che fare con il mondo dell’informazione.

La ragazza in questione, studentessa universitaria brillante e molto intelligente, ha commentato il proprio rapporto con il dolore come “pornografico”.

“Ricerco il dolore, ci gioco, ci staziono, mi ci trastullo. Non è masochismo: è qualcosa di diverso. A volte lo esibisco con gli amici e con i familiari; li faccio preoccupare, li destabilizzo, li lascio senza parole e mi metto al centro dei loro pensieri, privandoli del sonno.

Altre volte invece lo tengo per me, segreto, lo covo, lo metto in scena di nascosto, lo coccolo e gli permetto di diventare grosso come un impasto lievitato. Ma se voglio, torno a ridurlo; esco e vado a divertirmi. Godo nel tenerlo sotto controllo”.

Per alcune persone il dolore è un compagno di viaggio, un ospite interno con cui giocare o fare i conti. E questi conti li dobbiamo e li vogliamo fare.

L’idea di sbarazzarci dell’ospite ci atterrisce: cosa rimane, senza di lui? Il vuoto? Noi? Noi e basta? Noi siamo poco, siamo un contorno inutile.

In questi termini, il dolore diventa qualcosa di necessario per la nostra sopravvivenza. Esso ci riempie, ci completa, in fin dei conti ci dà un senso, ci fornisce qualcosa di cui occuparci, ci dona pena alternata a soddisfazione in quanto riusciamo a controllarlo, o almeno ne abbiamo l’illusione.

“Ma stai ancora male per quella cosa lì? Ma quanto tempo è passato?”, ci sentiamo chiedere. Sì, stiamo ancora male perché senza quel dolore non sappiamo stare, come un bambino non sa stare senza il suo orsacchiotto preferito: ha bisogno di accarezzarlo, di stringerlo, di torturarlo, di dimenticarlo a casa e poi di correre a riprenderlo con il cuore pieno di affanno.

Aiutare una persona sofferente non significa privarla del suo dolore; spesso significa aiutarla a comprendere la complessità del rapporto che ha con esso. Il dolore non si estrae come un dente cariato, non è una cosa che si toglie e si butta nella spazzatura. Il dolore va compreso e, in qualche modo, corteggiato.

In quest’ottica si apre un finestrone sul nostro mondo interno, su quanto sua difficile anche solo pensare di cambiare, su quanta paura si provi.

Il desiderio di restare così, avvinghiati al nostro amato e odiato orsetto, è così intimo, seducente, segreto, accattivante.
Il nostro dolore ci appartiene, ci definisce intimamente e la prospettiva di abbandonarlo può apparire terrificante: ecco uno dei motivi per cui a volte ci rifiutiamo di chiedere aiuto. Perché star male è brutto ma, a pensarci bene, il pensiero di smettere di star male ci pare ancora più brutto.

redazione

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