Sono la mamma, è colpa mia

Il senso di colpa materno è una malattia ad insorgenza rapida, virulenta e a rapida progressione, cronica e degenerativa, per la quale purtroppo non si conoscono ancora cure risolutive.

Ad insorgenza rapida perché si manifesta in modo istantaneo, nell’attimo in cui la donna chiusa in bagno vede l’esito positivo del test di gravidanza e all’istante, insieme alla gioia e allo sgomento, inizia immediatamente ad avvertire un potente senso di inadeguatezza. Pensa alle mamme di sua conoscenza e si sente da meno in tutto. Meno pratica, capace, sana, giovane, matura, saggia, alta, bassa, tutto.

Virulenta perché si trasmette e si propaga con estrema facilità, senza neanche bisogno di un contatto o di uno starnuto. Passa dalle madri alle figlie, dalle suocere alle nuore, prolifera nei discorsi fra sorelle, cognate ed amiche, si tramanda di generazione in generazione come un corredo di lenzuola ricamate.

Cronica perché dura per sempre. Se sei madre, ti sentirai in colpa per qualcosa fino al momento in cui esalerai il tuo ultimo respiro. Accanto all’urna per le tue ceneri, dovrebbero allestirne una seconda per i tuoi sensi di colpa.

Degenerativa perché tende a peggiorare. Se hai un figlio piccolo, ti senti in colpa per cose piccole. Se hai un figlio grande, ti senti in colpa per cose grandi. I tuoi sensi di colpa li vedi brucare nella nebbia come i dinosauri di Jurassic Park. Placidi. Indistruttibili. Pronti ad azzannare.

Il punto è: perché? Per quale ragione le mamme tendono così spesso a soffrire per colpe presunte?

Credo che la ragione risieda nel fatto che il ruolo di madre è, ancora oggi, fortemente idealizzato. La madre è un totem, un’istituzione, un altare. Puoi essere più o meno come vuoi, ci sono molti modi di essere ragazza, donna, amica, compagna, moglie, collega, ma nell’immaginario comune esiste ancora un solo modo di essere madre. Quello Giusto.

Le mamme di bambini piccoli si sentono in colpa se sono stanche, se hanno dubbi, se non riescono o non vogliono allattare, se non sprizzano ogni singolo istante quella gioia immaginata prima, nei mesi di gravidanza. Si sentono in colpa se faticano a rimettersi in forma, se tornano a lavorare troppo presto o troppo tardi, se la casa è in disordine, se non riescono a fare tutto e ad essere tutto. Durante la gravidanza si crea, nel nostro immaginario, un’idea di bambino ideale accompagnata da un’idea di noi come future mamme. Queste idee appartengono al mondo fantasticato e di concreto hanno ben poco. La realtà riserva sempre amare sorprese e ti accorgi che tuo figlio non assomiglia al putto della pubblicità del lievito Bertolini che ti eri immaginata, ma ha l’ittero e la testa a forma di melanzana. Ma soprattutto ti accorgi che tu, in versione mamma, non sei nemmeno una lontana parente di quella che ti eri immaginata. Pensavi che la gioia immensa di avere un figlio non ti avrebbe fatto sentire la stanchezza, ad esempio. E invece la stanchezza la senti eccome. Pensavi che saresti stata sempre felice, e invece non lo sei. Sognavi di passeggiare sotto i platani in primavera spingendo la carrozzina, e invece fa sempre o troppo caldo o troppo freddo e le uscite diventano un frenetico copri, scopri, ricopri e piange rigurgita o caca dappertutto. E poi aggiungiamo le difficoltà legate all’allattamento, alle ragadi, alle aggiunte, alle coliche, alle pesate e ai maledetti paragoni che lo sappiamo che non bisogna farli ma poi finiamo per farli lo stesso, sempre.

Leggiamo i libri su come crescere i figli ma siamo bombardate dai consigli delle mamme e delle suocere, che sostengono sempre l’esatto contrario. Hanno cresciuto i figli negli anni ’70 e da allora tutto è cambiato, ma non se ne rendono conto. Quando i miei figli erano neonati, li mettevo nella culla a pancia in giù perché così mi aveva detto l’ostetrica. Come mi giravo, mia mamma li prendeva e li metteva a pancia in su, “perché se no soffocano nel cuscino”. E io li rimettevo giù. E lei li rimetteva su. Mancavano solo l’uovo e il pangrattato, sembrava dovessimo impanarli.

Poi i figli crescono e i sensi di colpa si diversificano, si diramano, assumono la forma di piante rampicanti sempreverdi e personalizzate. Lavori? Li trascuri. Non fai le torte, non giochi abbastanza, la storia del tempo di qualità che va bene anche se poco ti sembra una cazzata. Non lavori? Sei depressa, non trasmetti loro un’immagine vincente, sei onnipresente, li soffochi, cerchi in loro il tuo riscatto.

Ci sentiamo in colpa per tutte le loro difficoltà ed i loro insuccessi. Se non leggono, se non studiano, se vengono bocciati, se non hanno amici, se sono pigri, se non fanno sport, se divorziano, se non trovano lavoro: colpa nostra. Avremmo potuto, avremmo dovuto.

Credo che la chiave per affrontare i sensi di colpa delle madri risieda proprio nella gestione dell’idealizzazione. Così come siamo ormai libere da molti cliché in riferimento al nostro modo di essere donna, dovremmo fare altrettanto in relazione al nostro modo di essere mamme. Quando aspettavo il mio primo figlio ho avuto la fortuna di conoscere Noemi, una bravissima ostetrica che durante il corso pre-parto ha insistito molto sugli aspetti psicologici, facendo capire a me e al resto del gruppo di illuse primipare quanto fossero pericolose le idealizzazioni e le aspettative irrealistiche. Tutte le future mamme dovrebbero avere l’opportunità di riflettere su questi aspetti in modo da arrivare pronte. Perché pronte non significa perfette, ma consapevoli.

redazione

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