Sanguina ancora

A cura della dottoressa Silvia Senestro

Pensiamo di essere diventati pazzi, quando soffriamo.

Per alcuni il dolore assume la forma di coltellate. Si sentono delle fitte acute nel petto, nella pancia, nella schiena. Per altri è più una morsa che stringe lo stomaco; altri ancora hanno la sensazione di avere la testa ovattata, come avvolta in un bozzolo, o piena di insetti che creano un gran brusio e impediscono di ragionare e di essere lucidi. Alle personalità più sfaccettate tocca la fortuna di sperimentare tutte e tre le esperienze contemporaneamente.

Il dolore funziona come un imbuto: raccoglie tutti gli stimoli e li trascina in un unico punto, un buco nero di sofferenza. È una specie di tritacarne che macina esperienze, ricordi, immagini e progetti rendendoli una poltiglia nera, un grumo.

È cosi soggettivo, quello che più ci fa soffrire. Ho incontrato persone devastate dalle vicende più varie: lutti, amori finiti o iniziati solo nella loro fantasia, problemi familiari, situazioni di vita complesse che paiono senza via d’uscita. A volte la sofferenza si presenta sotto forma di una depressione incomprensibile e senza un perché: viene da dentro, semplicemente. Ci sono persone, ragazzi soprattutto, che crollano dopo la morte del gatto o del cane. Anche del coniglio, una volta mi è capitato. Non è compito dello psicologo giudicare: non esistono dolori di serie A e dolori di serie B.

Ci si chiede: quando passerà? O almeno: passerà, prima o poi? Viene da farsi questa domanda perché l’effetto imbuto è talmente pervasivo da non lasciare nemmeno una vaga sensazione di fiducia; le speranze e le prospettive di rinascita paiono lontane anni luce, invisibili agli occhi e soprattutto all’anima. Un cuore spezzato non sente ragioni, rimane insensibile alle parole di conforto, ai tentativi che fanno gli amici per distrarci, agli sforzi che compiamo per uscire, per fare cose, per vedere persone.

Quando il dolore diventa depressione, poi, si trasforma in una specie di nebbia avvolgente, fitta, capace di coprire tutto. La persona depressa non vede nero. Vede grigio. Più che triste è assente, apatica, indifferente, rallentata nei movimenti e nel pensiero. La depressione è una brutta bestia e non va sottovalutata. Se avete un familiare depresso, è inutile cercare di spronarlo a fare cose e a darsi una mossa: non può riuscirci e non dipende dalla sua volontà. Serve ancor meno sgridarlo. Deve essere curato e basta. Il problema è che spesso queste persone non ne vogliono sapere, di curarsi. Vogliono restare lì, così.

La sofferenza d’amore merita un capitolo a parte. È il tema più gettonato delle canzoni; spesso ne trattano i film, i libri e le opere teatrali, adesso come cent’anni fa. Chi non ne ha esperienza può trovare i patemi di cuore un po’ ridicoli. Vien da dire: e vabbè, non è la fine del mondo. Morto un Papa se ne fa un altro. Invece, nella top-ten del dolore che ho stilato nel corso della mia esperienza clinica, oserei assegnare a questo tipo di male uno dei primi tre posti, per intensità e per durata. Il mal d’amore è capace di gettare a terra e frantumare anche le persone più forti ed equilibrate, di ridurre la famosa resilienza di cui tanto si parla ad un palloncino bucato, di farci piangere senza ritegno ad una cena davanti agli amici, al supermercato, allo sportello della posta. L’esperienza dell’innamoramento è talmente bella, grande e profonda da diventare il nostro tutto. Non c’è niente che possa assomigliarle per intensità e pervasività, tranne una cosa: la sua fine.

Amore e fine dell’amore si assomigliano in un modo inquietante per la loro capacità di avvolgerci completamente, di trasformarci in zombie, di lasciare di noi solo le briciole. “I Giorni dell’Abbandono” rende un’idea di ciò che può succedere quando un amore finisce: è un bel film, ma se leggete il libro di Elena Ferrante è ancora meglio.

Anche quel dolore, come tutti gli altri, ad un certo punto passa. Non si dimentica, non si dimentica nulla di ciò che è stato importante. Piano piano, quel bozzo nero viene sostituito da un altro più pietoso e più gentile, l’involucro del tempo, della memoria. Il dolore si fa meno acuto e le coltellate si trasformano in nostalgia. Dopo un tempo adeguato (non breve, comunque, e sempre piuttosto soggettivo) ti accorgerai che quel ricordo lo hai riposto in un cassetto della memoria. Se apri quel cassetto trovi il pacchettino. Non sembra fare male, ormai è diventato innocuo. Lo guardi per un po’ e ti sembra impossibile di aver sofferto così tanto, in quel modo pazzo e furioso. Che cretino che ero, ti vien da dire. E allora ti fai coraggio e provi ad aprire un po’ quel pacchettino, a sbirciarci dentro per vedere l’effetto che fa. E quel che ti lascia di stucco è accorgersi che, dopo tutto questo tempo, dopo le cure, le nuove esperienze e tutti i tuoi sforzi, sanguina ancora.

redazione

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