L’incontinenza emotiva

A cura della dott.ssa Silvia Senestro

In questo articolo non mi riferisco al fenomeno neurologico conseguente ad eventi che possono interessare il sistema nervoso centrale quali l’ictus, ma ad una condizione psicologica estremamente diffusa legata all’uso e all’abuso del telefonino.

Spesso leggiamo che i telefoni stanno modificando profondamente i nostri cervelli ma poi tendiamo a sottovalutare la portata di questi cambiamenti; pensiamo che il rischio sia di diventare più pigri, meno fantasiosi o meno socievoli mentre, in effetti, le trasformazioni avvengono in modo molto profondo, pervasivo e, per molti aspetti, irreversibile.

Tutte le volte che ci succede qualcosa, che proviamo uno stato d’animo o anche solo un accenno di esso, prendiamo il telefono e lo scriviamo a qualcuno. Spesso non articoliamo nemmeno una frase di senso compiuto ma facciamo uscire un’idea, un’impressione, un prodotto buttato lì come un po’ di pipì o di pupù. “Noia”; “triste”; “fatto pasta scotta”; “manchi”. Ogni cosa ha pari dignità, il cane che ha la diarrea vale quanto il nostro vuoto cosmico o un 6- in matematica.

La scarsa qualità dei nostri messaggi riflette la scarsa qualità dei nostri pensieri e la nostra capacità pari a zero di contenere e gestire le emozioni.

Un flusso continuo di inutilità, uno sbrodolamento di comunicazioni insignificanti, banali e lessate caratterizza la nostra messaggistica rendendoci superficiali e noiosi.

“Ma che importa? In fondo sono altrettanto superficiali e noiosi anche i nostri interlocutori”, potremmo ribattere. Vero, se non teniamo conto di ciò che accade al nostro sistema nervoso.

Una volta ci veniva impartito di tenerci tutto dentro e di nascondere agli altri le nostre emozioni. Oggi non siamo capaci di tenerci per noi nemmeno 10 secondi di qualsiasi idea o impressione. Ci siamo persi il giusto mezzo, il buon senso di riconoscere un’emozione, di assorbirne l’impatto (positivo o negativo che sia), di gustarcela o di subirla per conto nostro e successivamente, e solo se è il caso, comunicarla a qualcuno, anzi al qualcuno giusto.

Questa procedura è sana e riflette un equilibrio, una buona educazione emotiva.

Riesco a riconoscere le mie emozioni, riesco a tenerle dentro, a gestirne l’impatto, a farle viaggiare dentro di me lasciando che provochino modifiche ed infine a scegliere se e a chi comunicarle.

Capite l’enorme differenza fra questa cosa di cui ho appena scritto ed il flusso continuo di spazzatura emotiva che riversiamo ogni giorno sui nostri interlocutori? Spazzatura indifferenziata, per giunta, dove tutto ha lo stesso peso e la stessa importanza e viene gettato nello stesso cassonetto: piccoli imprevisti quotidiani, drammi esistenziali, stati d’animo, paure, ricerca di contatto e di rassicurazione.

Ecco cosa intendiamo noi psicologi quando diciamo che i nostri giovani sono fragili. Non riescono a tenere le loro cose. Non le riconoscono, non le gestiscono, le devono subito espellere come un rifiuto o come una patata bollente cercando un contenimento esterno ma ottenendo risposte altrettanto generiche, annoiate e fumose. Stiamo a mollo come rane in un brodo comunicativo (ma anche e soprattutto emotivo) tiepido ed annacquato, gente.

Spesso assegno ai ragazzi che seguo il compito di aspettare mezz’ora prima di scrivere ciò che volevano scrivere e di provare a starsene lì in compagnia di quell’idea o di quell’emozione, vedendo l’effetto che fa. Strano lavoro, vero? Ci provano e mi dicono di sentire un’angoscia ed una solitudine profonde; il brodo diventa un lago immenso; non si vedono le rive a quanto pare.

I nostri ragazzi provano ansia e attacchi di panico se entrano in stazione, se vanno al supermercato, se escono dall’aula di scuola e si affacciano in corridoio. Molti necessitano di psicofarmaci. Pensiamoci prima di regalare un telefonino per la Prima Comunione o quando fingiamo di non accorgerci che lo tengono in mano tutto il giorno. Aiutiamoli a nuotare fuori da quel brodo finché siamo in tempo e, già che ci siamo, proviamo ad uscirne anche noi.

redazione

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